Era da un po’
che non mi recavo a teatro così, quando Aspasia mi ha proposto di andare a
vedere la Sonnambula in quel di
Trieste, non ho potuto che lietamente acconsentire e partecipare, per quanto
alcune recensioni negative avessero un po’ “appannato” il mio entusiasmo.
Devo
confessare che, aspettandomi una catastrofe, sono rimasta discretamente
soddisfatta della mia sortita e che nel complesso lo spettacolo andato in scena
domenica 7 maggio è stato apprezzabile, per quanto non entusiasmante. Il cast
era composto dai seguenti elementi:
Il conte Rodolfo Filippo
Polinelli
Amina Aleksandra
Kubas-Kruk
Elvino Bogdan
Mihai
Lisa Olga
Dyadiv
Alessio Marc
Pujol
Teresa Namiko
Kishi
Un notaio Motoharu
Takei
Coro e Orchestra
del Teatro Verdi di Trieste
Direttore: Guillermo
Garcia Calvo
Regia Giorgio Barberio Corsetti
Regista assistente Fabio Cherstich
Scene e Costumi Cristian Taraborrelli
Disegno luci Marco Giusti
Anzitutto,
ciò che angoscia maggiormente di questi tempi è la regia e proprio da questa
inizio, confessando il mio sollievo per aver trovato “solo” una spartana casa
di bambole costituita da una poltrona, un letto, una cassettiera e un comodino
giganti che di volta in volta si contendevano la scena mentre su un lato del
palco erano collocate alcune bambole che avrebbero dovuto richiamare e, forse,
esplicitare meglio l’azione. L’allestimento e il suo richiamo in miniatura, in
verità, non hanno né giovato né peggiorato l’opera, che si è placidamente
snodata seguendo la trama senza significativi colpi di scena... fuorché in un
caso, quando Amina entra nella stanza d’albergo di Rodolfo e, anziché
gironzolare come tutti i comuni sonnambuli, canta sparendo e sbucando dai
cassetti dell’enorme cassettiera. Devo confessare che questa trovata mi è
sembrata involontariamente buffa.
Il
soprano Aleksandra Kubas-Kruk è stata un’Amina decisamente gradevole, dalla
voce bella e sicura. La direzione decisamente poco ispirata e frettolosa le ha
lasciato poco spazio per esprimere con fine introspezione i sentimenti della
giovane, innocente e (per i tempi che corrono) svenevole orfanella,
ma la Kubas-Kruk è stata scenicamente e vocalmente convincente, a suo agio
nella coloratura e con un’unica, sventurata defaillance
al termine del duetto con Elvino che, fortunatamente, è rimasto un incidente
isolato.
Per
quel che riguarda il tenore Bodgan Mihai, devo dire che l’ho trovato migliore
di una registrazione che ho avuto occasione di ascoltare alcuni anni fa, quando
era stato protagonista di Adelaide di
Borgogna al Rossini Opera Festival del 2011 – ma il miglioramento non implica
che il suo Elvino sia stato memorabile per un qualsivoglia motivo. Mihai “ha
cantato” e questo è tutto, “sanza infamia e sanza lode” a causa di una vocalità
scialba e inconsistente che ha fatto sì che non ci sia mai stato un momento in
cui suscitasse un vero entusiasmo.
Anche
il conte Rodolfo di Filippo Polinelli mancava di certo squillo, per quanto la
voce avesse un timbro aristocratico. Il basso ha cantato Vi ravviso, o luoghi ameni quasi come se affrontasse un’aria
estranea, tanto più che la premura con cui è stata diretta non avrebbe concesso
a nessuno di sciorinarla infondendovi un po’ di sentimento, e anche nel resto
dell’opera non si è distinto per particolari slanci.
Per
quel che riguarda i ruoli minori, la Lisa di Olga Dyadiv è stata corretta per
quanto non possedesse un timbro bellissimo e talora la sua dizione fosse
fastidiosamente compromessa dalla confusione fra “c” e “g”, la Teresa di Namiko
Kishi è stata anch’essa valida e, date le origini asiatiche, ha
involontariamente precisato con assoluta chiarezza che la biondissima Amina non
poteva che essere adottata; apprezzabile infine anche l’Alessio di Marc Pujol.
La
direzione, come ho già accennato, è stata rigorosamente estranea al clima
idilliaco e campagnolo dell’opera, come se Guillermo Garcia Calvo avesse
rinunciato in partenza a un qualsiasi tentativo di entrare nella delicata atmosfera
belliniana. Non si può dire che lo spettacolo sia stato debole o fiacco perché la
direzione non mancava di un certo piglio, che si è fatto sentire in particolare
nei due finali e soprattutto nel secondo, dove è sembrato che i timpani
dovessero sfogarsi come se non esistesse un domani, ma, a parte questi exploit più o meno (in)giustificati, il
risultato finale è stato compromesso da una sconsolante assenza di colori.
Citando Aspasia, il direttore “ha battuto il tempo e nient’altro”, correndo ove
possibile.
Questo
è quanto: nulla di eclatante, ma neanche di così irrimediabilmente brutto da
farmi ritenere di aver sprecato un pomeriggio.
Nessun commento:
Posta un commento