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mercoledì 3 agosto 2016

Il compleanno della Scala!

Oggi ricorre il 238° (sì, è proprio così: duecentotrentottesimo) anniversario dell'inaugurazione del Teatro alla Scala di Milano e, per celebrare degnamente l'evento, voglio proporvi "prima la musica, poi le parole", come dicevano in altri tempi l'abate Casti e Antonio Salieri.

venerdì 9 dicembre 2011

Il grammofono: Don Giovanni o quello che era...

Oggi sono indiavolata come vuole il nostro titolo: son due giorni che rifletto su quella boiata che è stata la prima alla Scala di quest’anno e non riesco a trovare una definizione migliore che TRUFFA!
Già da un paio d’anni (dalla Carmen la cui regia era poco meglio di questa – più animata, per lo meno) il mio cavallo di battaglia è diventato: una volta non si entrava alla Scala se non ci si chiamava Maria Callas e adesso non ci entra se non ci si chiama Erwin Schrott. Riferimento non del tutto casuale visto che quest’anno ad inaugurare la stagione c’era sua moglie/amante/pubblica concubina (sono anni che ci chiediamo se Schrott e l’Annina Netrebko siano sposati o no. Un giorno, sospetto anche loro si chiederanno una volta per tutte se «Son tue cifre?»). Bando ai pettegolezzi, poiché del cast che ci hanno proposto salverei (ampiamente, aggiungo) solo il protagonista (cosa in cui il regista mi ha assecondata con una licenza clamorosa) e la Frittoli, sono piuttosto indignata per la scelta degli altri interpreti: non c’era nessuno di meglio? Un Masetto un po' più aggraziato? Un Commendatore distinto? Un Leporello che non sembrasse ubriaco (ma questo poveretto ha cantato con la Bartoli e non si esce immuni da esperienze del genere)? Una Zerlina che non facesse accapponare la pelle? Un don Ottavio con un minimo di coscienza? Una donna Anna che non cantasse dall’inizio alla fine come se masticasse chewing gum (stonando a piacere)?
Anche la direzione è stata al di sotto delle mie aspettative, con tempi da far invidia a una Ferrari, ma ho trovato esagerati i fischi rivolti alla fine a Baremboim, non fosse che per il fatto che sono stati più abbondanti per lui che per il regista, il vero delinquente. Suppongo che il povero Baremboim non ne potesse più neppure lui di questo scempio, perciò ha cercato di finirla il più alla svelta possibile.
Non sono abituata a fare paragoni fra produzioni, perché penso che ognuna dovrebbe essere presa in se stessa, che ognuna ha dei punti positivi e dei punti negativi. Tuttavia, il mio pensiero è andato con struggente malinconia alla prima del 1987: un innocuo Don Giovanni che seguiva pedissequamente (e gradevolissimamente) il libretto, con una donna Anna del calibro della Gruberova e Muti sul podio. In neanche venticinque anni siamo decaduti di brutto...
Anzitutto, questa storia del teatro nel teatro mi lascia alquanto perplessa: non è un’idea nuova e credo che ne abbiamo tutti le scatole piene... Almeno, se dobbiamo seguire la moda, seguiamola nel bene, non nel male. Tutto ciò che posso dire di questa regia è che è stata assolutamente triste e, per una che riverisce il compositore e il librettista prima di un qualunque regista pacchiano, sacrilega. Anzitutto, l’idea di considerare don Giovanni un innocente traviato è opinabile, soprattutto perché quest’innocenza si basa sull’assunto che le tre donne dell’opera, vipere insidiose, non lascino al protagonista altra scelta che agire come agisce. Vorrei sottolineare che, se lui non fosse andato a pestare loro la coda, non sarebbe accaduto niente e che la sua natura è chiaramente evidente dai recitativi con Leporello, un servo e perciò incapace di frenare il suo padrone, a cui oltretutto ammicca durante la mascherata con donna Elvira.
Esordio: un accattivante Leporello in tenuta dimessa si presenta sul retro di un teatro, come si nota dalla scena girata da comparse in tenuta da tecnici. Anziché imprecare contro i privilegi nobiliari che permettono al padrone di spassarsela, Leporello si sarebbe sentito più a suo agio criticando un sovrintendente.
Ovviamente, don Giovanni nel frattempo se ne sta a letto con donna Anna, che stavolta è più bendisposta delle precedenti. La Netrebko ha i capelli scuri arricciati in piega Marilyn Monroe e mi aspettavo che attaccasse da un momento all’altro Diamonds are a girl’s best friends (così forse avrebbe concluso qualcosa di buono?).
Il Commendatore arriva come un divo, infrachettato e con bastone da passeggio, e probabilmente si arrabbia con don Giovanni non perché stava seducendo sua figlia, ma perché adesso era costretto a sfidarlo e a rovinarsi una serata allegra.
Povera donna Elvira! Già nell’abominevole Don Giovanni di Trieste era entrata in impermeabile (copia esatta di quello che indossava la nostra professoressa di Greco quasi settantenne), ma quello manteneva una certa sobrietà. Questo propinato alla povera Frittoli era a quadretti. Si vede che donna Elvira aveva tanta fretta di inseguire don Giovanni da mettere la prima cosa che avesse trovato e precipitarsi fuori (infatti, toltasi il soprabito, rimane in sottoveste).
Ma in Ispagna son già mille e tre: il non picciol libro (attenzione, prego: non picciol, cioè in quarto, massimo in ottavo, e libro, oggetto di materiale cartaceo o pergameneaceo che si può agevolmente portare in una borsa) è diventato una gigantesca parete su cui le avventure amorose del don sono segnate con stanghette tagliate... Comodo, visto e considerato che questi due hanno girato mezza Europa.
Poi vengono Zerlina e Masetto, di bianco vestiti per appaiarli, così come donna Anna e don Ottavio sono in nero e donna Elvira e Leporello (nel secondo atto) sono in rosso. A parte questo richiamo, se mio marito lo sventurato giorno del nostro matrimonio si presentasse vestito di bianco credo che lo pianterei sull’altare. Ma è inutile cercare la creanza in un circo.
Alla fine del primo atto, tutti sono in rosso... Rosso passione, presumo. Belli i vestiti delle donne, che rimandavano quasi all’epoca dell’ambientazione originaria. Sbandamento di brevissima durata: per il finale, eccole riprendere le loro sottovesti chiare o scure.
Il secondo atto si apre con donna Elvira che sospira non da un normale balcone, ma da un pertugio nel sipario. Tutto il mondo è teatro, caro il mio Shakespeare... E infatti, dopo che la cameriera di donna Elvira a cui puntava don Giovanni è scesa da lui, i due si accomodano sul palco e seguono il resto dell’atto come spettatori (o meglio, visto che è don Giovanni a muovere la macchina, come un regista che si pasce dell’opera sua).
Il Commendatore è stato spedito a cantare da un cimitero al palco reale, con somma gioia delle due cariatidi che aveva ai fianchi, Monti e Napolitano. La domanda è: perché? Spieghiamo il regista la differenza fra palco reale e palcoscenico; ne avremo tutti dei vantaggi.
Con Aspasia, riflettevo su quanto fosse chic e al contempo strano, che un fantasma gironzoli in frac, ma lei mi ha fatto giustamente notare che alla prima alla Scala si va eleganti.
La cena. Niente orchestra sul palco, ingombrato da un’enorme tavola che raggiungeva le quinte. Visto che don Giovanni cenava solo soletto nel mezzo, il resto era tristemente vuoto... Finché non compare donna Elvira, improvvisata cubista, che balza sul tavolo e canta da lassù, tipo gli ubriachi in osteria. Olè!
Per non parlare del finale, drasticamente cambiato a favore di don Giovanni, che è l’unico che non precipita negli inferi! Non ci sono parole... E non ce ne sono perché non è il caso di spenderne per una stupidaggine che, discussa, assumerebbe maggior importanza di quella che ha. Meglio passarla sotto silenzio e avere pietà dei posteri, poiché dai registi noi non ne otterremo.

martedì 22 novembre 2011

Ah qual colpo inaspettato. Atto terzo, recensione e conclusione

Io e Aspasia. A Milano. Sole e abbandonate in questo popoloso deserto. Senza genitori a fermarci. Senza fratelli rompiscatole a cui badare. Galvanizzate dalla serata appena trascorsa e dalla splendida colazione a buffet. Favorite dalla giornata di sole. Con una macchina fotografica che pesa quanto una guglia del Duomo...
Avevamo vissuto, a modo nostro, una notte brava. Adesso ci attendeva la dolce vita. Ci avremmo rimesso il patrimonio, poco ma sicuro.
Fingendo che non ci interessassero i negozi di libri e cd, per differire l'ineluttabile momento in cui avremmo aperto il portafogli per mai più richiuderlo, ci siamo dedicate a una mattinata culturale al Castello Sforzesco
al cui ingresso ci attendeva un sosia mascherato di Antonino Siragusa


e escursione al Duomo.



Ovviamente, al Castello Sforzesco non potevamo esimerci dal visitare la collezione di strumenti musicali, non scoraggiandoci nemmeno dopo esserci quasi perse quelle tre o quattro volte ed essendo entrate, per gentile concessione della guardia, dalla porta sbagliata...
In effetti, il sito del Castello non è propriamente di facile orientamento per un forestiero; anzi, pare che si siano divertiti a ingarbugliare le cose. La cosa buona è che l'ingresso non è caro e che per i giovani è addirittura gratuito.
Pranzo a degustazione rapida e via, di nuovo a far danni! Mentre Aspasia si è data alla beneficienza in favore della Ricordi, io ho finanziato le già pingui casse della mia libreria preferita, in cui la parte al piano di sotto è dedicata ai libri nuovi, mentre il ballatoio al piano di sopra è una riserva dei MIEI libri, i fuori catalogo. Così, se ho onorato la storia recuperando l'ennesimo dall'Oglio, sui Medici (un giorno aprirò una lunga parentesi su questa casa editrice che solo apparentemente non ha niente a che spartire col repertorio musicale), ho anche pensato alla musica, allungando gli artigli sulla pseudo-biografia di Mozart a cui accennavo.
Intanto, le generalità:

Stendhal, Vita di Mozart, Passigli Editori, 1982.

Sì, lo so che esiste anche la ristampa più recente, ma questa ha due pregi: anzitutto, era scontata, e, secondariamente, si intona con gli altri volumi di questa collana che ho comprato, che sono tutto fuorché nuovi.
A parte ciò, non sono una sprovveduta, sapevo perfettamente che avrei comprato un mucchio di frottole con tanti abbellimenti. Tutti i biografi moderni di Mozart citano Stendhal ma storcono il naso. Il male, tuttavia, va sperimentato di persona e io non mi tiro mai indietro quando si tratta di leggere, chiunque sia l'autore e chiunque sia il protagonista.
In effetti, dal punto di vista storiografico, l'Ottocento (ma anche i primi decenni del Novecento) è stato un secolo poco illuminato. Le vite dei grandi sono state spesso trattate come favolette; per non uscire dal nostro e non abbandonare il soggetto (Mozart si prestava, suo malgrado, a deformazioni di ogni tipo che ancora oggi lasciano il segno...), citerò la "biografia" di Paolina Leopardi, piacevolissima come tutte le altre operette di questo tipo, coinvolgente e confezionata in modo elegante, ma guai a cercare verità storica: a parte la confusione che scombussola le date (non ultima quella di morte), l'autrice si permette di far sposare Leopold due volte. Che dobbiamo fare? Lo scopo di Paolina era dimostrare che il fratello Giacomo aveva affinità di vissuto con Mozart, entrambi in balia di un padre tiranno, e pazienza per i dati di fatto...
Il Novecento ha seguito questa falsariga: benché dotata di maggior rigore storico, anche la pietra miliare che è il Napoleone di Emil Ludwig (lo stesso autore dei Colloqui con Mussolini, per inciso) indulge nella libertà di movimento, per cui i pensieri del personaggio e quelli dell'autore si fondono al punto tale che non è più possbile distinguere gli uni dagli altri. Un prodotto della sua epoca: a quei tempi si usava così...
Il caposaldo di questo sistema che predilige il sentimento rimane, però (salta queste righe, Aspasia, hai già dato...) il Bellini dell'Aniante, melenso, stucchevole e lacrimoso, tant'è vero che meriterà un servizio a parte, uno di questi post.
Dopo questo cappello introduttivo che spero non vi abbia scoraggiato, veniamo a OGGI LE COMICHE. Mi limiterò a segnalare gli errori più pacchiani:
1) il paragrafo introduttivo al capitolo III (pag. 42) «A diciannove anni Mozart poteva dire di aver raggiunto il culmine della sua arte, come tutti gli ripetevano da Londra fino a Napoli. Quanto alla ricchezza e a una sua sistemazione, era padrone di scegliere fra tutte le capitali d'Europa. Sapeva per esperienza di poter contare sull'ammirazione generale».
Questo è forse l'esempio più palese di disinformazione. A parte che trovo assurdo affermare che "il culmine" della carriera sia stato raggiunto da Mozart a diciannove anni (e la trilogia? le grandi sinfonie? Ma giusto alla fine del capitolo precedente troviamo scritto «La parte più straordinaria della vita di Mozart è l'infanzia»), ciò che segue sarebbe ridicolo se non fosse spaventoso. Anzitutto, Mozart non era affatto libero di scegliere una collocazione fra le corti d'Europa, perché all'epoca i musicisti contavano quanto i domestici (tant'è vero che spesso ne condividevano la mensa) e Mozart era legato all'arcivescovo di Salisburgo Colloredo, uomo inflessibile e che riesce antipatico nel suo rigore. Quanto all'ammirazione generale, era svanita da un pezzo: il bambino prodigio era cresciuto, aveva annoiato. Ecco la ragione per cui Leopold Mozart, nei primi anni della vita del figlio-pupillo, aveva girato l'Europa come una trottola: sapeva che non poteva durare (quando la figlia Nannerl raggiunse un'età in cui era superata come bambina prodigio, il furbo padre la ringiovaniva apposta sui volantini pubblicitari per suscitare maggior ammirazione di pubblico). Aggiungo qui che le tournée fruttarono a Leopold un mucchio di soldi e che, nonostante molto tempo dopo avrebbe protestato presso il figlio perché, per farlo viaggiare, si era indebitato, ciò era una BALLA clamorosa, che gli serviva per tenere vivo in Wolfgang, che aveva scelto una strada diversa da quella da lui sognata, il senso di colpa.
2) a pag. 45 si legge «Ha lasciato diciassette sinfonie». DICIASSETTE? Ma se sono più di quaranta! E questo non lo dico io. Lo dice il Kochel!
3) «L'imperatore Giuseppe gli voleva bene e lo aveva nominato suo maestro di cappella» (pag. 57). FERMI! Sul fatto che l'imperatore "gli volesse bene" avanzerei più di una obiezione, visto che l'atteggiamento di Giuseppe II si può definire ambiguo, nel migliore dei casi. Nella famiglia imperiale regnava una certa diffidenza nei confronti di Mozart, a partire da Maria Teresa, che aveva dissuaso uno dei figli ad assumerlo alla sua corte perché non avevano bisogno di un mangiapane a ufo («Mi chiedi di prendere al tuo servizio il giovane salisburghese. Non so perché, visto che non credo tu abbia bisogno di un compositore o di gente inutile» [dalla lettera di Maria Teresa all'arciduca Ferdinando di Lombardia, 12 Dicembre 1771]). Nemmeno presso il successore di Giuseppe II, Leopoldo II, le cose migliorarono, perché Mozart fu escluso persino dal seguito dell'incoronazione a Francoforte, a cui invece parteciparono altri musicisti imperiali.
Quanto alla nomina, Maestro di cappella un piffero, per restare in ambito musicale! Nessuna nomina di questo tipo venne da parte dei sovrani, mentre Mozart divenne vice (VICE!) Maestro di cappella della cattedrale di Santo Stefano appena pochi mesi prima della morte (9 Maggio 1791, per essere fiscali) e per merito del Consiglio Municipale di Vienna. Era un posto non retribuito che però faceva balenare la speranza di uno stipendio di duemila fiorini, una volta defunto il vecchio Maestro di cappella. Caso volle che Mozart morisse prima, per cui non fu mai Maestro di cappella.
4) degli opinabili giudizi musicali (pag. 80-81 e nella Lettera a pag. 84):
sulle Nozze «Per restare nell'atmosfera della commedia, la musica avrebbe potuto essere scritta insieme da Cimarosa e da Paisiello. Solo Cimarosa avrebbe potuto dare a Figaro la brillante gaiezza e la sicurezza che gli conosciamo. [...] Inoltre la melodia di quest'aria [Non più andrai] è piuttosto comune e solo l'espressione che acquista a mano a mano la rende deliziosa»
sul Così fan tutte: «Il libretto del Così fan tutte era adatto a Cimarosa, non a Mozart. Egli non poteva scherzare con l'amore, ch'era sempre per lui o la felicità o l'infelicità della vita. Perciò non ha reso in quest'opera i lati teneri dei vari personaggi, fallendo del tutto in quello scherzo del vecchio e caustico capitano di vascello».
Non resta che chiedersi che opere abbia sentito e ricordare una lettera di Mozart al padre in cui l'amore viene accarezzato con una certa ironia (cito a memoria): "Se dovessi sposarmi con tutte le donne cui mi sono divertito, dovrei avere duecento mogli".
5) non sono riuscita a ritrovare il riferimento, ma Stendhal sovrappone Aloysia Weber, amore giovanile di Mozart e celebre virtuosa, con Constanze, sorella della prima e moglie di Mozart, attribuendo a lei le doti canore della sorella maggiore
6) varie ed eventuali leggende, in primis (te pareva!) quella del Requiem, poi quella dell'ouverture del Don Giovanni, scritta la sera prima della prima (pag. 54: Mozart si sarebbe fatto raccontare dalla moglie delle storielle per non farsi vincere dal sonno e «qualcuno ha preteso di riconoscere in questa ouverture i passaggi in cui Mozart sarebbe stato vinto dal sonno e quelli in cui si sarebbe svegliato di soprassalto». La sottigliezza rasenta il ridicolo!), qui variata rispetto alla versione che pretendeva che l'amico Wolferl avesse trascorso il tempo giocando a bocce.
7) degli errori nelle date delle opere (pag. 45): il Figaro composto nel 1787 (era dell'anno precedente) e Clemenza e Flauto magico nel 1792 (quindi addirittura postume!).

Questo è quanto. Confidando di non avervi annoiati, io e Aspasia attendiamo trepidanti il prossimo viaggio e i nostri due alla quinta lettori al ritorno.

giovedì 17 novembre 2011

Una voce poco fa: Ah qual colpo inaspettato. Atto secondo



A me la parte goliardica, adesso! Uno spettacolo che si rispetti, con noi in sala, non può, non POTREBBE essere serio, mai e poi mai.
Un rapido appunto tecnico (e spero di concludere qui la parte noiosa): dalla mia posizione, non vedevo metà del palco, quindi possono essermi sfuggiti particolari significativi. Comunque il materiale a mia disposizione abbonda.
Anzitutto, l’allestimento. Ormai è talmente difficile trovare un allestimento di senso compiuto che mi sono quasi venute le lacrime agli occhi quando ho visto un semicerchio a logge rischiarate da quattro o cinque lampadari che pendevano dal soffitto. A seconda delle necessità, poi, il semicerchio si apriva a metà e lasciava intravedere scorci alpini vari ed eventuali.
Il punto è che i lampadari, di cristallo, sarebbero stati carini se non fossero stati tanti. Così assumevano un aspetto kitsch che fa gridare allo scandalo in una reggia.
Confesso ora di non capire a cosa servisse che, su questi loggiati, si muovessero i doppi dei protagonisti. Ormai la moda del doppio impazza e a noi non resta che sorbircela...
Il coro. Finalmente questi poveri coristi non sono stati conciati in modi bislacchi, ma vestivano eleganti frac e abiti da sera. In particolare, mi sono innamorata di un vestito verde acqua di uno dei contralti, che da lontano pareva essere di velluto. Poi, però, compaiono sulla scena i protagonisti, abbigliati in tutt’altro stile, che non saprei attribuire a un’epoca precisa ma in deciso contrasto con l’abbigliamento del coro. La scelta di vestire gli uni in un modo e gli altri in un altro, per quanto i vestiti fossero belli e curati, non mi è piaciuta; in effetti, ci stava come i cavoli a merenda...
L’altra cosa che mi ha messo ansia è stata proprio all’inizio dello spettacolo, quando il coro si presenta in scena vestito come abbiamo detto e con dei calici in mano.
«Ho sbagliato opera!» ho pensato. «Adesso attaccano il brindisi della Traviata! Numi, pietà!»
No, niente Traviata, il Gioak per una volta ha avuto la meglio sul compositore preferito e sull’opera preferita di oggigiorno...
I cantanti. La parte tecnica è stata esaurientemente dibattuta da Aspasia, io mi occupo delle questioni collaterali (di quelle che Petrarca definirebbe nugae, cioè bazzecole). Vorrei solo puntualizzare che, dopo quest’assaggio di vocalità rossiniana, siamo apposto con le voci fino alla prossima generazione, perché i migliori erano tutti scherati lì per noi.
Partiamo con... le scarpe di Florez. Il nostro passerà alla storia per tante belle qualità, ma non per innalzare la soglia di altezza del tenore medio, visto che calzava un paio di stivali con palese rialzo (la moda dei tacchi lanciata da Luigi XIV, ometto piccino checché possa parere dai quadri, non è stata dimenticata). La cosa ancora più triste era che la Barcellona, le cui calzature erano rasoterra, era comunque più alta di lui. Il trucco permette guadagno fino ad un certo punto...
Proseguiamo con... le minacce di Florez (poi con te ho finito, povero...). Qui prendiamo le mosse un po’ da lontano, perché le disquisizioni mie e di Aspasia sul suo modo affatto convincente di minacciare sono iniziate dai tempi di gloria degli ormai mitici Puritani di Bologna (anno di grazia 2009), che prima ci siamo gustate dalla registrazione dalla radio e poi, già che amiamo perseverare, dal DVD completo. Ciò che era emerso dall’audio (e che il video ha confermato) è che il nostro non sa minacciare, gli manca lo stampo. Un tenore che minaccia è di per sé ridicolo, per moltissime ragioni: in primis, di solito si accapiglia con un baritono/basso che lo sovrasta di tutta la testa e quindi la faccenda assume un risvolto tragi-comico. In secundis, i tenori sono i personaggi eroici per definizione, quindi è facile che vogliano strafare e che finiscano male. Insomma, all’ascoltatore non resta che gridare “Togliete la spada di mano a quel pazzo!”
Nella Donna del lago, per fortuna, nulla di tutto questo accade. Terzetto del secondo atto: il Diego stavolta ci era sembrato scatenato sul serio, a differenza dei Puritani. La spiegazione è semplice: stavolta un tenore si scontra con... un altro tenore, cioè Florez si scontra con Osborn. Diciamo la verità, il Diego sapeva già che se lo sarebbe mangiato con tutta la spada, che quando c’è in giro lui tutti gli altri tenori si dileguano! In effetti, il nostro era talmente lanciato che, allontanandosi per duellare con lo sfidante (per una volta alla sua altezza), ha fatto anche un gesto imperioso e spazientito.
Finito col primouomo, passiamo al Vero Uomo, la Barcellona, con tanto di corazza, ormai suo simbolo distintivo (benché sia stata annunciata come Rosina a Trieste, l’anno prossimo). Non si sa bene perché, ma nell’ultima scena compare sul palco con tutt’altra divisa, in frac, come Douglas, evidentemente per appaiarli col coro, ma la domanda è: perché? Poverina, se sono talmente abituata alla corazza da poter dire che le dona, così conciata era ridicola! Non si possono fare cose del genere, soprattutto senza alcun motivo apparente... E domandare spiegazioni a un regista mi ha sempre messo addosso una certa ansia, sarà che sono prevenuta...


P. S. So che in questa foto sembra minuta, ma in realtà non è vero.

Dovrebbe essere finita qui, e invece no, perché vorrei soffermarmi su una certa voce, che pretendeva che in sala ci fossero degli autoparlanti e che gli applausi e i “Bravo!” fossero precedentemente registrati. SMENTISCO! Testimonio che io non ho visto niente del genere e non per il fatto che sono palesemente venduta a Florez e che perciò ho gli occhi foderati di prosciutto e non ho visto per non vedere (anche perché, da brava ingorda, quel prosciutto piuttosto che metterlo sugli occhi lo metterei nello stomaco). Non li ho visti perché, ovviamente, non c’erano. E poi, diciamola tutta! Chi può pensare a sangue freddo un «Sei splendido!» per una registrazione? Queste sono cose che si fanno per ispirazione del momento, sono impensabili senza una vera emozione di sostrato, come dimostra la trasfigurazione del tranquillo pensionato in un tifoso d’assalto allo stadio (scusate il paragone blasfemo, ma rende il concetto).

Dovrebbe essere di nuovo finita qui, e invece no, perché dopo quella serata io e Aspasia avevamo un giorno intero da passare in gozzoviglie, per cui ci sarà una quarta parte, con (Udite, tutti udite! Le orecchie spalancate!) la recensione di una pseudo-biografia di Mozart (poi giustificherò lo "pseudo") che ho avuto la malaugurata idea di comprare. Dopotutto, da quando abbiamo aperto il blog abbiamo parlato praticamente solo del Gioak. È ora che il nostro compositore preferito si faccia sentire...

domenica 13 novembre 2011

Una voce poco fa: Ah, qual colpo inaspettato! (Milano, 8-9 Novembre 2011). Antefatto




Quest’operazione, come avrete notato, non è intitolata con un nome in codice come le precedenti, ma ciò non è dovuto a una improvvisa mancanza di fantasia, ma a un fatto semplicissimo: io, in tutto questo (come in molto altro...), non avrei dovuto centrare un tubo.
Il piano originario prevedeva che Aspasia si recasse alla Scala in compagnia di sua madre e che io restassi a casa a fare la calza e trepidare per la sugosa cronistoria al loro ritorno. Invece, per cause di forza maggiore, è stata necessaria una sostituzione dell’ultimo minuto... e quando dico ultimo minuto, intendo proprio ultimo minuto, cioè le sette di sera di Lunedì 7, con la partenza fissata alle dieci di mattina di Martedì 8.
«Miserere!» ho pensato, dopo che Aspasia, al telefono, mi aveva spiegato il corso degli eventi, «Niente di pronto, non ho neanche un vestito da sera invernale! La valigia sarà in chissà quale nicchia del garage! Adesso sono via, prima delle nove non sarò a casa! E domani mattina dovrei trovarmi in stazione bella e pronta? Santa Radegonda! Come posso dire di sì?»
«Accetto» ho risposto invece, convinta come don Camillo quando, appena tornato dalla Russia dove si era recato sotto mentite spoglie, deve ripartire per l'America su richiesta del vescovo.
Figurarsi se avessi risposto di no: le partenze all’ultimo, gli imprevisti, i colpi di scena sono il mio mestiere, pazienza per i bagagli da preparare e il vestito da comprare! Non mi scompongo per lo scompiglio, semmai lo incoraggio.
Caso voleva che fossi in un centro commerciale e che avessi davanti a me valanghe di vestitini graziosi... Ho fatto talmente in fretta a trovarne uno che ho mi è avanzato tempo anche per un bel paio di scarpe.

PRONTI, PARTENZA, VIA! Martedì 8 Novembre dell’anno di grazia 2011, siamo puntualmente partite alla volta di Milano coi potenti mezzi Trenitalia.
L’albergo. Bel posticino, in sito centrale ma non trafficato: il quartiere era talmente carino che ruminavamo fra noi «WOW! Non sembra nemmeno Milano!» Né io né Aspasia siamo patite di quella grigia città (benché un insistente coniglio che pubblicizzava un insipido risotto allo zafferano e affisso ad ogni cantone ostendesse il piatto esclamando “E poi dicono che Milano è grigia!”), quindi l’esclamazione tornava ad onore della via.








Il centro. Riposte le valige, fuori a far baldoria! Foto d’uopo davanti al manifesto affisso fuori dalla Scala, guardando intorno semmai uno dei nostri eroi avesse la sciagurata idea di incrociare la nostra strada, arpionarlo per un autografo e dimostrare al malcapitato cosa possono essere due fans isteriche, perlustrazione di Piazza Duomo e giretto per la Rinascente, centro commerciale d’impianto simile all’Harrods di estiva memoria, un po’ meno kitsch e con tanto di dolci carissimi e bellissimi all’ultimo piano (c’erano anche delle invitanti scarpe tacco dodici e borsetta coordinata al cioccolato. La stessa idea l’hanno avuta a Venezia col Murano, ma preferisco la variante milanese...). Uscite da lì e proseguendo sotto il portico, ci siamo imbattute in una via che non avremmo mai creduto di trovare, dedicata a una santa che credevo dimenticata e che, suo malgrado, è diventata la patrona di questo blog:


Aggiungendo che vicino all’albergo c’era poi quest’altra via, di un altro santo altrettanto famoso:


siamo giunte alla conclusione che i Milanesi condividono la mia stessa predilezione per i santi bizzarri.
Tempo scaduto! Rientro in albergo per i grandi preparativi. Due primedonne hanno bisogno della debita calma per prepararsi a dovere:

Qual mattutina stella
bella vogl’io brillare,
del crin le molli anella
mi giova ad aggraziar.

Onde evitare incresciosi incidenti coi tacchi e non arrivare a teatro provate come se avessimo scalato l’Everest, abbiamo chiamato un taxi. Avrei omesso questa notizia se il nome del taxi non fosse stato rilevante: Lima, altamente evocativo visto che alla Scala ci attendeva nientemeno che l’adorato Juan Diego. Con l’intercessione della nostra patrona e l’approvazione del Perù, la serata, che prometteva bene di suo, sarebbe andata a gonfie vele.
Palco, il secondo del quart’ordine. Arriviamo, salutiamo le due signore olandesi nostre vicine, ci immortaliamo sul luogo del misfatto e ci sediamo, Aspasia davanti e io dietro. Mi alzo di scatto: dal mio posto non si vedeva che un lembo estremo del sipario...

Mi sovvenne, emergendo dalle nebbie del tempo, la bella Salisburgo, il Festspiele di due anni fa, in cui trovammo i posti per miracolo, ma per disgrazia erano posti in piedi. Non eravamo provviste nemmeno di un comodo puff su cui accomodarci per dare breve sollievo ai piedi costretti nelle scarpe coi tacchi...
A spettacolo concluso, avevamo avuto bisogno di una rigenerante
Coca Cola per riprenderci (non mi interessa di quello che ne pensano i salutisti: è stata un vero toccasana e la ricorderò con amore finché non scoprirò con che intrugli la preparano) e ancora non sapevamo che l’ultimo autobus era già passato e dovevamo tornare in ostello a piedi, alle undici e mezza della sera, in riva all’umida Salzach.
Lato positivo: avevamo sentito il Luca dal vivo. Ad avercelo chiesto, l’avremmo rifatto. Il Luca val bene una Salzach.

Ecco accontentato, due anni dopo, il mio spirito d’abnegazione. Guardavo il mio piccolo sgabello che sembrava ancora più piccolo e ancora più sgabello in considerazione delle tre ore di opera che avevamo davanti a noi. Il comodo soglio di Aspasia mi sembrava ancora più comodo e ancora più soglio...
In ogni cosa ci vuol filosofia, sosteneva don Alfonso, personaggio antipatico quant’altri mai ma che alla fine ha ragione. Hai ragione due volte, caro don: sono alla Scala, c’è Florez, c’è la DiDonato, c’è la Barcellona (che è quasi nostra vicina di casa, visto che abita a Trieste) e c’è il Gioak. Fosse stato Verdi, ti saresti potuta ben lamentare, ma, mettendola su questo piano, vuoi guastarti la festa per un insulso sgabello (foderato con un delizioso raso rosso, che mi sarei volentieri portata a casa per le sedie del soggiorno: il Rosso Scala fa sempre effetto)?
Chissenefrega, come disse la Scotto: il Diego val bene uno scranno!

NELLA PROSSIMA PUNTATA: la recensione della serata.

mercoledì 26 ottobre 2011

Per lui che adoro: Waiting for La donna del lago (e che waiting!)

Stasera, su Radio3, in diretta nientemeno che dalla Scala, il nostro adorato Juan Diego si cimenterà nella Donna del lago del Gioak.
Ecco un breve assaggio di quello che ci aspetta (la registrazione è quella di Pesaro con la Devia). Come noterete dopo la prima foto sobria, il nostro tenore preferito quando vuole non è affatto serio. Ringrazio Google immagini per la gentile collaborazione.



A stasera!