Insomma, ero in un particolare stato di grazia; troppo particolare, troppa grazia. Quella morigerata giovincella che aspettava ordinatamente il proprio turno fuori dal teatro, in mezzo alle befane impellicciate e stuccate come dive del cinema, non ero io. Non potevo essere io! Ero troppo tranquilla, troppo ordinata, troppo intonata all’ambiente. ERO UNA CARICATURA!!!
Poco male, ho di che consolarmi con questa recensione, in cui spero di prendermi una rivincita (rivincita sancita fin dal titolo, che magari mi costerà la testa ma che è un affettuoso omaggio alla mia amata briscola).
Come da buona tradizione felsinea, il secondo cast era destinato a surclassare il primo (che ho sentito alla radio con momenti di raccapriccio). Ed ecco qui gli intrepidi interpreti:
Turandot, Elena Pankratova
Calaf, Francesco Anile
Liù, Virginia Wagner
Timur, Alessandro Guerzoni
Ping, Marcello Rosiello
Pong, Stefano Pisani
Pang, Mario Alves
Altoum, Stefano Consolini
Un Mandarino, Nicolò Ceriani
Principe di Persia, Martino Fullone
Due ancelle, Maria Adele Magnelli e Marie-Luce Erard
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Maestro del coro, Lorenzo Fratini
Preparatore del coro di voci bianche, Alhambra Superchi
direttore, Fabio Mastrangelo
regia, Roberto De Simone
Una volta tanto, posso volgermi alla regia con un sospiro di sollievo, perché ciò che ho visto eguagliava la bellezza della musica: l’allestimento di De Simone, che aveva già inaugurato la riapertura del Petruzzelli poco più di due anni fa, era davvero ambientato “a Pechino, al tempo delle favole” ed era composto da una lunga scalinata su cui si disponevano i coristi abbigliati come i soldati dell’esercito di terracotta. Un tocco estremamente suggestivo. Alcune maschere di mostri (a seconda delle necessità, boia, aguzzini, carnefice di Lo-u-ling, di cui si assiste allo scempio mentre Turandot racconta la sua triste vicenda) e delle visioni nei momenti salienti hanno completato la coreografia. Commovente l’accento messo sulla giovinezza e la purezza del giovanissimo principe di Persia, circondato da una luce bianca al momento del supplizio.
In cima alla scalinata, era situato il trono dell’imperatore. Durante la scena degli enigmi, Turandot (che compare quasi per incanto da dietro un telo in movimento) canta fra dei guerrieri finti che, a mano a mano che Calaf indovina, sprofondano come a dimostrare che la principessa sta perdendo il suo potere. Nell’ultimo atto, invece, la scena si svolge presso la tomba di Lo-u-ling e l’opera si conclude proprio con lo spirito dell’ava che conduce con sé l’esanime Liù dopo aver porto a Turandot un fiore, simbolo della prossima riconciliazione con Calaf.
La scelta più discutibile forse è proprio questa, di interrompere l’opera nel punto in cui termina la musica di Puccini. Ascoltando i commenti all’uscita (no, non ho origliato. Erano gli altri a parlare a voce alta...), alcuni hanno apprezzato quest’idea, trovando corretto non proseguire oltre la scrittura dell’autore. Sinceramente, io non saprei decidermi: tagliando il finale, si perde il senso della storia, ma è anche vero che il lieto fine mi è sempre sembrato stiracchiato molto più che in altre opere. Un bacio è un po’ poco per piegare una principessa ieratica, e come me la pensa anche il regista (come si legge al programma di sala, pagg. 76-77), che ricorda che, nel mito originale, “la Principessa crudele è vittima di un incantesimo di possessione” da parte di uno spirito maligno, quello dell’antenata. Tutto questo, però, non è ripreso nel libretto di Adami e Simoni ed è un aspetto della trama che mi lascia profondamente insoddisfatta, così come (ma questo è un mio parere personale. Prendetelo per quello che vale) non sopporto il personaggio di Calaf, talmente preso dalla sua ossessione per Turandot da dimenticare il padre, che affida a Liù senza un minimo di rimpianto, e da liquidare con appena un misero accenno il sacrificio della schiava, a cui tanto dovrebbe...
La direzione di Mastrangelo è stata guastafeste e si è risolta in una corsa a perdifiato: sgraziata e frenetica (ogni tanto gli strumenti gemevano alla “Numi, pietà!” e come dar loro torto). Come dice Aspasia in questi casi “Si vede che aveva le scarpe strette e non vedeva l’ora di cambiarle”. L’unico tratto che assolverei è la caratterizzazione delle tre maschere, in cui il lato istrionico ha attenuato le altre carenze. Quanto al resto, era marcatissima l’indulgenza per le chiuse secche e i fortissimi, che hanno non poco menomato le prestazioni dei cantanti: all’arrivo in scena di Calaf, Liù e Timur, non si è udita una parola e così si è proseguito per gran parte dell’opera. In sostanza, un danno su tutta la linea...
I cantanti hanno fatto del loro meglio, visto che erano abbandonati a loro stessi, e si sono destreggiati fra il mediocre e il buono, con sporadiche punte di eccellenza. Andrò in ordine di apparizione.
Il mandarino Nicolò Ceriani non ha dato una prestazione brillante, con gli acuti volutamente calcati (per darsi maggiore autorità, ma diventando estremamente pesante) e la voce traballante. Per Timur non posso esprimere un giudizio, poiché era quasi completamente coperto dalla direzione. Apprezzabile la Liù di Virginia Wagner, in difficoltà nell’acuto e nell’estremo grave, ma ha dato un’idea di dolcezza e di remissione toccanti nell’aria del terzo atto, particolarmente importante in questo allestimento, in cui conclude l’opera.
Giudizio contrastante suscita invece il Calaf di Francesco Anile, che si era portato abbastanza bene per i primi due atti, salvo collassare completamente sotto il peso di Nessun dorma, in cui era calantissimo. L’emozione? La paura per il banco di prova? Si sono levati applausi ma anche fischi e non so quanto sia stata buona l’idea di interrompere il fluire della musica per dare modo al pubblico di esternare i suoi umori contraddittori.
Le tre grazie, Ping, Pong e Pang, abbigliati con tuniche rosse, gialle e verdi che gridavano semaforo, hanno dato buona prova di loro, fuorché qualche nota spoggiata di Pong. Fra i tre c’erano una bella commistione di voci che li rendeva irresistibili (soprattutto per chi come me ha un debole per i personaggi votati allo sketch, nonostante in questo caso si tratti di umorismo macabro).
L’imperatore Altoum era impietosamente ridicolo, con una vocina stentata, quasi impaurita, a tratti caprina.
Per la Turandot di Elena Pankratova si assiste a un’evoluzione inversa a quella descritta per il tenore: In questa reggia tremava d’ansia, la voce aveva un sibilo piuttosto stridulo, ma già verso la fine dell’aria la cantante ha preso un po’ di coraggio e anche la voce si è abbellita, nonostante ci restassero alcune note un po’ troppo sparate e imprecise. Gli enigmi, pur nella loro “staticità”, sono stati ben sciorinati, senza grossi difetti di pronuncia (ogni tanto arrivava qualche doppia non richiesta). Il personaggio manteneva intatta la sua proverbiale freddezza. Rimane una bella interpretazione e confido che, prossimamente, potrò risentire questa cantante con una maggiore sicurezza, perché può dare molto.
Il pubblico ha dimostrato di apprezzare, coronando la recita con dieci minuti di applausi (è stato necessario riaprire il sipario), benché non siano mancate contestazioni al tenore e al direttore, quasi completamente coperte dall’esultanza generale. Nel complesso, sono soddisfatta anch’io, che conto come il due a briscola fuori dalle pagine di questo blog... ma non bisogna dimenticare che talora basta il due a vincere una partita: per un punto Martin perse la capa. Turandot deve aver avuto un po’ di pratica con questo gioco.