lunedì 12 marzo 2012

Una voce poco fa: Impresa solitaria: Violetta o sia Ne faremo di tutti i colori! (Bologna, 11 Marzo 2012)

Uscire triste da teatro è un autentico controsenso: se questo fosse lo scopo di andare all’opera, tanto varrebbe stare a casa a urlare al fratello orgogliosamente truzzo (ahimè...) di abbassare il volume dell’audio: ci si divertirebbe di più. Perciò, le ho trovate tutte pur di spassarmela nonostante la serietà dell’opera in questione, la strappalacrime Traviata: ogni volta che ascolto il conte tu ferito mi viene da pensare che fu ferito ad una gamba come un celebre italico eroe e ho sempre pensato che una che intona una nenia come Addio del passato finirà male per forza, tisi o non tisi. Se fosse partita a declamare In uomini, in soldati, probabilmente Violetta sarebbe ancora viva... Aspasia, poi, conosce bene la mia battuta che, se per caso mi fossi annoiata, avrei fatto il solletico al direttore, visto che me ne stavo spaparanzata in platea.

Anzitutto, mi sono affidata ai ricordi, in particolare al mio diletto don Camillo, che ha avuto l’onore di assistere a una Traviata come poche, ma anche a delle esperienze di vita vissuta.
Questa Traviata, per la regia di Alfonso Antoniozzi, è la ripresa di quella di un anno e mezzo fa. All’epoca, non avevo ancora avuto l’intuizione che forse esistono altri teatri raggiungibili in giornata, a parte Trieste, però Aspasia, che è tecnologicamente avanti, mi aveva invitato a una serata operistica a casa sua per vedere su internet la ripresa della prova generale.
Per non presentarmi a mani vuote, mi ero aggiudicata fin dalla mattina le nostre adorate paste di una squisita pasticceria locale...
Poi, però, c’è stata tutta una giornata in mezzo...
Mi preparo per tempo, lusingandomi che, per la prima volta in vita mia, sarei riuscita ad arrivare puntuale ad un appuntamento. Salgo in macchina, attacco l’MP3 alle casse dell’audio portatili (mio papà sostiene che sia una vergogna, per una radio, venire collocata in una Seicento e io mi arrangio come posso) e parto alla ventura...
A metà strada, esattamente a metà strada – quando non serve sono una persona precisa – faccio un salto: per prendere l’MP3, avevo DIMENTICATO le paste in frigo!
Odio, furor, dispetto, dolor, rimorso, rimorso e sdegno!
Per fortuna, l’ora del collegamento non coincideva con l’ora d’inizio dell’opera e ho potuto rimediare senza perdere l’inizio... Però, Verdi mio (devo pur incolpare qualcuno), certo che mi porti pegola!
Già a quell’epoca, le premesse erano state buone: la Devia aveva una parrucca rossa che la rendeva sosia di Milva (copyright by Aspasia) e il tenore, nel completino del secondo atto, così squadrato, piccino e tracagnotto sembrava un glorioso compagno sovietico.

Torniamo al presente, che mi ha vista protagonista con un determinato “Stavolta non mi fregano!” perché sono arrivata con quattro ore e mezza d’anticipo. Non sia mai che mi manchi il tempo per il consueto giretto punitivo a caccia di libri. In effetti, tanto determinata ero a trovare l’introvabile, che poi non ho trovato, da avventurarmi con le scarpe col tacco fra le bancarelle di un propizio mercatino dell’usato su strada ciottolosa. Poco male se me ne sono andata a mani vuote e col portafoglio pieno, nella mia libreria di fiducia avevo adocchiato da un paio di settimane ben due Bellini che mi consentissero di approfondire le mie conoscenze sulla vita dell’autore in modo più profondo rispetto a quelle smielate e inutili lungaggini che ho tratto dalla biografia del signor Aniante.
Per la cronaca (semmai vi venisse l’estro di cercarli o, se li avete già, per confermarmi il buon acquisto o smentirmelo), si tratta di:
1. Bellini, G. Tintori, ed. Rusconi 1983
2. Vincenzo Bellini. La vita, le opere, l’eredità, a cura di G. Taborelli, SilvanaEditoriale, 2001. È un’ariosa raccolta illustrata di saggi

Adesso, finalmente, passiamo alle cose serie (Ma mi facci il piacere!, direbbe Totò). Anzitutto, premetto che hanno sostituito Alfredo all’ultimo, come hanno annunciato in sala, ma purtroppo, a causa del cicaleccio circostante, non ho potuto cogliere il nome, per cui noi (come direbbe il Sandro nazionale, mio carissimo amico), saremo costretti a chiamarlo l’innominato.
Ed ecco il resto dell’allegra combriccola:
Violetta Valéry, Yolanda Auyanet
Giorgio Germont, Stefano Antonucci
Flora Bervoix, Giuseppina Bridelli
Annina , Roberta Pozzer
Gastone, Vladimir Reutov
Barone Douphol, Mattia Olivier
Marchese D’Obigny, Christian Faravelli
Dottor Grenvil, Masashi Mori
Giuseppe, Luca Visani
Un commissionario, Sandro Pucci
Domestico di Flora, Marco Danieli

Orchestra e Coro del Teatro Comunale
Maestro del coro, Lorenzo Fratini
Direttore, Michele Mariotti
Regia, Alfonso Antoniozzi

Per anni mi sono chiesta cosa spingesse tante esimie primedonne a calarsi nei panni di una donna di malaffare (dal cuore d’oro, sì, ma sempre di malaffare resta...), per giunta malata, per giunta sfortunata, per giunta sensibile, che non è affatto un pregio, nell’ambiente del demi-monde. Non ho mai trovato una risposta convincente se non il massimo della frivolezza: i bei vestiti. Quando il mondo girava ancora nel verso giusto e non occorrevano arbitrari cambi di secolo per calarsi nello spirito dell’opera, le Callas, le Moffo, le Sutherland (per quanto sempre un po’ befana, santa donna!) di turno erano agghindate meravigliosamente, così da scusare la storia.

Che dire? Per prepararmi bene allo spettacolo mi sono permessa anche un excursus filmico (ho letto il libro alcuni anni fa) con La signora delle camelie di Greta Garbo (peraltro ricordata anche nel programma di sala. È bello sapere di non essere soli), confermando la mia convinzione: visto che la trama si reggeva malamente, l’unica cosa che, dopo i primi dieci minuti, meritasse attenzione, erano davvero solo i vestiti e gli ambienti (e l’interpretazione insuperabile della protagonista, benché queste donne fragili non mi siano mai piaciute)!
Il preambolo è giustificato dal fatto che, nell’allestimento che ho visto, anche i bei vestiti scarseggiavano. Per la verità, quelli che la protagonista indossava nelle scene di festa (il primo turchese, l’altro nero con una striscia di fiori bianchi, stesso modello con la gonna lunga e stretta e le maniche a tre quarti, evviva la fantasia) erano assai graziosi, ma nella prima parte del secondo atto se ne andava in giro con un tristissimo tailleur di colore smorto, mentre Alfredo (camicia, pantaloni, stivali, fazzoletto rosso al collo) più che il compagno dell’altra volta sembrava uno scoloratetto troppo cresciuto, poi si segue alla festa con Flora in un vestito rosa shocking che urlava Marilyn e il coro conciato nelle maniere più bizzarre, come nel primo atto (non vi dico che acconciature...).
Beh, accontentiamoci. Almeno, in questa regia non si sono viste cose bislacche come Alfredo alle prese con un recalcitrante tagliaerba (onore che ha avuto invece il nostro diletto Jonas “Zuanín” Kaufmann e di cui noi ancora ridiamo), benché alcune cose da ridire le avrei: per esempio, non condivido l’idea di far intonare il celebre brindisi a un lato del palco, mentre al centro Flora si cimenta in un ingiustificato spogliarello (perché???), e men che meno mi è andato a genio il modo in cui si è risolto il coro dei mattadori (pezzo che la mia sete di goliardia aspettava con ansia, non fosse che per l’attacco simile a Viva il grande kaimakan), cioè con un filmato quantomeno di dubbio gusto... Come disse, sconsolato, un ragazzo all’uscita “Perché le feste di Traviata vengono sempre interpretate come un’orgia???”
Gli ambienti, invece, erano desolatamente tristi: nel primo atto avevamo una casa d’impianto moderno, con un orribile quadro d’arte contemporanea sullo sfondo, un divano e una chaise-longue.
Nella prima parte del secondo atto, l’azione si sposta in una stanza grigia ed essenzialissima: un quadro, un attaccapanni, due sedie, una poltrona, uno scrittoio (con sopra una foto di Vivien Leigh, neanch’io arrivo a tanto!) e un paio di piante. Capirete che, davanti a una simile desolazione, diventa comico sentire Germont padre che si meraviglia “Pur tanto lusso”. Mah... La seconda parte dell’atto si svolge su una scenografia divisa in due: da una parte la festa vera e propria, dall’altra, separata soltanto da una striscia nera e dal gioco di luci, una stanza vuota dove si svolge il duetto Invitato a qui seguirmi. Devo dire che è stato di un certo effetto quando Alfredo trascina Violetta dalla parte dove stava il coro. È stato un bel passaggio improvviso, dava l’idea della rapidità.
Nel terzo atto la miseria dilaga: Violetta giace a terra fra due pareti nere. Qui si ha l’unica vera mancanza alla fedeltà del libretto perché ciò che accadrà è solo un sogno di Violetta: a dimostrazione di ciò, c’è una seconda Violetta che rimane a terra per tutto l’atto.
Per quando riguarda la direzione di Michele Mariotti... potrei partire in quarta con uno sperticato panegirico, ma finirebbe con voi increduli e con me imbrigliata in qualche ampollosa formula seicentesca. Quindi sarò parca quando dirò che, come minimo, merita una statua per essere riuscito a non far distrarre un’anti-verdiana cronica come me. In particolare il secondo atto (e sottolineo che io ho un’idiosincrasia radicata per i secondi atti verdiani, anche per quello di Rigoletto) è stata una rivelazione: l’attenzione non è mai calata, più di una volta mi sono trovata a pensare “Oooh, che meraviglia!” (!) e ho trovato soprattutto grandiosi Non sapete quale affetto (si sentiva, evidentissima, la pena di Violetta) e Amami Alfredo (ma su questo pezzo tornerò per una questione collaterale nella parte riservata agli sproloqui fra vicini). Ho trovato un po’ più scialbo il primo atto, mentre il finale è stato travolgente e addirittura insuperabile (posso dirlo?) Addio del passato.
La Violetta di Yolanda Auyanet, che purtroppo deve competere con tante primedonne storiche, pur non essendo stata brillantissima non è stata affatto disprezzabile. È stata una Violetta dalla voce un po’ esile, soprattutto nel registro acuto, e talvolta non del tutto convincente nell’espressione, ma si è comportata particolarmente bene nei momenti più struggenti del secondo e del terzo atto, in cui ha cercato di trovare le sfumature giuste (registro come magnifico, in particolare, il deciso attacco di Morrò, la mia memoria e il giammai che precede Non sapete quale affetto).
Da dimenticare invece l’innominato Alfredo, il che è un peccato considerata la voce bella e grande, ma purtroppo sostenuta assai malamente (alcuni suoni suonavano come schiacciati) e il pubblico, che pure l’aveva applaudito dopo De’ miei bollenti spiriti, non gli ha perdonato la pessima conclusione di Oh mio rimorso, oh infamia (lo smaliziato di turno ha pensato bene di aspettare che l’orchestra concludesse per precisare il suo disappunto, che poi si è ripetuto, più abbondante, negli applausi finali).
Quanto a Germont padre, pur non avendomi convinta del tutto (ma questa non è tanto colpa del cantante, quanto del personaggio, poiché trovo il suo comportamento nei riguardi di Violetta quanto meno ambiguo: la accusa di rovinare la sua famiglia, eppure ne è impietosito, senza rendersi conto della sua salute cagionevole; arriva persino ad assicurarle che vivrà a lungo e felice dopo che lei gli ha detto di essere malata! È compassione, ma sorda. Ovviamente, ciò dipende dal fatto che Germont è l’incarnazione dello spirito piccolo-borghese, ma per completare questa mentalità manca una cosa: l’ipocrisia), ha avuto il merito non da poco di non essere il solito orco che ho sentito in più di una registrazione, per quanto a volte avesse un piglio un po’ diverso da quello che io immagino per questo personaggio: termina Pura siccome un angelo (che aveva iniziato con un tempo suo, ma per fortuna poi tutto è andato apposto) con un non voglia il vostro cor no, no, volutamente imperioso piuttosto che supplichevole, atteggiamento che sta bene in un uomo preoccupato ma che non avevo mai contemplato come eventuale interpretazione... Ma con Violetta se lo può permettere, non è donna che lo prenda a calci.
Comprimari fra il disperato e il gradevole, con menzione di lode alla Flora di Giuseppina Bridelli, che aveva il giusto andazzo.

Credo di aver concluso con le cose importanti. Adesso vengo a quelli che, in dialetto, si chiamano babezzi... la lingua nazionale non può rendere bene questo termine che, grossomodo, posso tradurvi con “pettegolezzi”. Insomma, avevo giurato che, Violetta o non Violetta, me la sarei spassata e tutti (e dico tutti) mi hanno dato manforte.
Parte prima. Forse vi ricordate dalla recensione di Cenerentola che io e Aspasia abbiamo un debole per i sospiri del Michele, che puntellano costantemente qualunque sua direzione. Solo che stavolta, se avessi deciso di partire a ridere come l’altra volta, probabilmente il signore anziano seduto vicino a me mi avrebbe preso per matta... O forse non se ne sarebbe proprio accorto, visto che aveva scambiato il librone da quattrocento pagine sulla regina Elisabetta che stavo leggendo nell’intervallo (con tanto di faccia della regina impressa sulla copertina... Come ha potuto scambiarla con Verdi???) per il libretto dell’opera, che forse arriva a dieci.
Insomma, parlavo dei sospiri. Stavolta, però, la prima a sospirare, corrucciata, sono stata io, quando l'eroe si è presentato in frac. Di pomeriggio??? Orrore e raccapriccio! Mi è partita in mente la risatazza del Gattopardo, quando don Calogero se ne arriva al ricevimento pomeridiano del principe con altrettanto degno vestito... Lo stesso discorso si può fare per le scarpe (qui ho fatto le veci di Aspasia, visto che di solito quella che guarda le scarpe è lei), ovviamente in tono l'abito, ovviamente lucide, ovviamente inappropriate... Santa Radegonda, aiutaci tu!

Per quanto riguarda i sospiri più propriamente detti, non ci sono state grandi cose, quindi io non ho corso il rischio di farmi espellere dal Comunale vita natural durante per una risatazza inappropriata. Solo a Così alla meschina, ch’è un dì caduta ad un certo punto si è sentito un “tipitipitipi”. Sulle prime, avevo pensato che fossero i topi. Invece, indovinate chi era?
Parte seconda. Il mio vicino era accompagnato da una signora, che è venuta a salutarlo nell’intervallo fra primo e secondo atto, e stavano animatamente ricordando che questa era la stessa produzione di un anno e mezzo fa. La signora parlava tutta compiaciuta dell’Amami Alfredo e, ad un tratto, si sporge a guardare l’orchestra. Dopo accurata ispezione, si volge trionfante al suo amico ed esclama “Eh, il Mariotti ha voluto i tamburi grandi per fare lo stesso effetto dell’altra volta!” “Davvero?” domanda il signore, tutto trillante. “Sì! Sono tamburi grandiiiiiiiiissimi!” e si sbraccia tracciando un enorme cerchio.
Non sono espertissima di strumenti musicali, per cui potrei sbagliarmi, ma ho visto sempre tamburi delle stesse dimensioni, più o meno, e non so se la grandezza può determinare maggiore o minore acustica (forse sì per un effetto di cassa di risonanza, ma, come ho detto, ci vado cauta).
Essendo però un po’ curiosa di vedere questi benedetti tamburi, alzo discretamente la testa dal mio libro e li guardo. Regolarissimi, di dimensioni cristiane. A sentire parlare questa, sembrava che dovesse esserci chissà che razza di gong!
Parte terza. Il preludio del terzo atto era partito magnificamente, poeticissimo, quand’ecco levarsi un’infinita eco di starnuti, più o meno catarrosi, più o meno nitidi, che ci ha accompagnati finché la musica è cessata. Presumo che in sala i simpatizzanti di Violetta pullulassero e hanno voluto dimostrarglielo. Spero però che non diventi una bizzarra tradizione...
Avrei potuto sorvolare (vista l’età media di quelli che mi circondavano, c’è poco da stupirsi di un simile lazzaretto...) se a guastare la magia non fosse intervenuto, provvidenziale, il sipario trasparente, che si era incastrato mentre saliva, e si è liberato con uno SLACK! sonoro.
Tutto ciò sarà avvenuto per colpa mia, chissà. Io con le opere serie non ci so fare. Tuttavia, caro Beppo, se anche la prossima volta mi accoglierai tanto calorosamente, sappi che ti sei guadagnato una fan.

4 commenti:

  1. MAGNIFICA COME SEMPRE! :) M.

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  2. Hihihi, forse il TAMBURI grandi erano i timpani? ;D
    Si vede chi ha fatto il classico, scrivi proprio bene !
    Io volevo esserci la sera prima della tua recita, ma la gentile signora della biglietteria mi ha fatto notare che era tutto esaurito, ahimé !

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    1. Grazie mille per i complimenti! Lo sketch dei timpani sarà uno di quelli che passerà alla storia! :) I biglietti erano quasi esauriti già ai primi di Gennaio quando avevo prenotato per me, purtroppo! Però per la verità qualche poltrona libera l'avevo vista, nonostante l'affluenza massiccia di popolo... Si vede che qualcuno ha cambiato idea all'ultimo...

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