martedì 9 maggio 2017

Una voce poco fa: La sonnambula (Trieste, 7 maggio 2017)

Era da un po’ che non mi recavo a teatro così, quando Aspasia mi ha proposto di andare a vedere la Sonnambula in quel di Trieste, non ho potuto che lietamente acconsentire e partecipare, per quanto alcune recensioni negative avessero un po’ “appannato” il mio entusiasmo.
Devo confessare che, aspettandomi una catastrofe, sono rimasta discretamente soddisfatta della mia sortita e che nel complesso lo spettacolo andato in scena domenica 7 maggio è stato apprezzabile, per quanto non entusiasmante. Il cast era composto dai seguenti elementi:

Il conte Rodolfo          Filippo Polinelli
Amina                         Aleksandra Kubas-Kruk
Elvino                         Bogdan Mihai
Lisa                             Olga Dyadiv
Alessio                        Marc Pujol
Teresa                         Namiko Kishi
Un notaio                   Motoharu Takei

Coro e Orchestra del Teatro Verdi di Trieste
Direttore: Guillermo Garcia Calvo

Regia                           Giorgio Barberio Corsetti
Regista assistente       Fabio Cherstich
Scene e Costumi         Cristian Taraborrelli
Disegno luci               Marco Giusti

 

Anzitutto, ciò che angoscia maggiormente di questi tempi è la regia e proprio da questa inizio, confessando il mio sollievo per aver trovato “solo” una spartana casa di bambole costituita da una poltrona, un letto, una cassettiera e un comodino giganti che di volta in volta si contendevano la scena mentre su un lato del palco erano collocate alcune bambole che avrebbero dovuto richiamare e, forse, esplicitare meglio l’azione. L’allestimento e il suo richiamo in miniatura, in verità, non hanno né giovato né peggiorato l’opera, che si è placidamente snodata seguendo la trama senza significativi colpi di scena... fuorché in un caso, quando Amina entra nella stanza d’albergo di Rodolfo e, anziché gironzolare come tutti i comuni sonnambuli, canta sparendo e sbucando dai cassetti dell’enorme cassettiera. Devo confessare che questa trovata mi è sembrata involontariamente buffa.
Il soprano Aleksandra Kubas-Kruk è stata un’Amina decisamente gradevole, dalla voce bella e sicura. La direzione decisamente poco ispirata e frettolosa le ha lasciato poco spazio per esprimere con fine introspezione i sentimenti della giovane, innocente e (per i tempi che corrono) svenevole orfanella, ma la Kubas-Kruk è stata scenicamente e vocalmente convincente, a suo agio nella coloratura e con un’unica, sventurata defaillance al termine del duetto con Elvino che, fortunatamente, è rimasto un incidente isolato.
Per quel che riguarda il tenore Bodgan Mihai, devo dire che l’ho trovato migliore di una registrazione che ho avuto occasione di ascoltare alcuni anni fa, quando era stato protagonista di Adelaide di Borgogna al Rossini Opera Festival del 2011 – ma il miglioramento non implica che il suo Elvino sia stato memorabile per un qualsivoglia motivo. Mihai “ha cantato” e questo è tutto, “sanza infamia e sanza lode” a causa di una vocalità scialba e inconsistente che ha fatto sì che non ci sia mai stato un momento in cui suscitasse un vero entusiasmo.
Anche il conte Rodolfo di Filippo Polinelli mancava di certo squillo, per quanto la voce avesse un timbro aristocratico. Il basso ha cantato Vi ravviso, o luoghi ameni quasi come se affrontasse un’aria estranea, tanto più che la premura con cui è stata diretta non avrebbe concesso a nessuno di sciorinarla infondendovi un po’ di sentimento, e anche nel resto dell’opera non si è distinto per particolari slanci.
Per quel che riguarda i ruoli minori, la Lisa di Olga Dyadiv è stata corretta per quanto non possedesse un timbro bellissimo e talora la sua dizione fosse fastidiosamente compromessa dalla confusione fra “c” e “g”, la Teresa di Namiko Kishi è stata anch’essa valida e, date le origini asiatiche, ha involontariamente precisato con assoluta chiarezza che la biondissima Amina non poteva che essere adottata; apprezzabile infine anche l’Alessio di Marc Pujol.
La direzione, come ho già accennato, è stata rigorosamente estranea al clima idilliaco e campagnolo dell’opera, come se Guillermo Garcia Calvo avesse rinunciato in partenza a un qualsiasi tentativo di entrare nella delicata atmosfera belliniana. Non si può dire che lo spettacolo sia stato debole o fiacco perché la direzione non mancava di un certo piglio, che si è fatto sentire in particolare nei due finali e soprattutto nel secondo, dove è sembrato che i timpani dovessero sfogarsi come se non esistesse un domani, ma, a parte questi exploit più o meno (in)giustificati, il risultato finale è stato compromesso da una sconsolante assenza di colori. Citando Aspasia, il direttore “ha battuto il tempo e nient’altro”, correndo ove possibile.

Questo è quanto: nulla di eclatante, ma neanche di così irrimediabilmente brutto da farmi ritenere di aver sprecato un pomeriggio.

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